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mercoledì 27 gennaio 2010

GIORNATA DELLA MEMORIA: IL MIO INTERVENTO

Preceduto dalla lettura dei versi di Primo Levi e seguito da quella della poesia di Adriano Sofri "Nei Ghetti d'Italia anche questo non è un uomo", da me scelti, ecco il testo dell'intervento che ho tenuto questa mattina durante la cerimonia ufficiale di celebrazione della "Giornata della Memoria" per le vittime della Shoah.

“Signor Sindaco, Sua Eccellenza Monsignore, Signori Consiglieri Comunali, Cari ragazzi Consiglieri Comunali Junior, Autorità Civili, Militari e Religiose, Signori Dirigenti Scolastici, Signori Docenti, cari Studenti, carissimi Concittadini,
ho scelto ed ascoltato con voi, ha affermato Montella rivolgendosi alla platea, i versi struggenti che Primo Levi compose per la prefazione del suo romanzo autobiografico “Se Questo è un uomo” pubblicato nel 1947, per iniziare questo mio intervento e per ricordare quell’abominio universale che fu il nazismo.
Ho voluto farlo con quei versi, perché sono talmente intensi che trasudano dolore, piangono disperazione, gridano orrore e sconfortante impotenza.
Attraverso le parole di Levi a noi tutti sembra di poter ancora ascoltare la disperazione di quelle donne, di quei bambini e di quegli uomini annientati dalla barbarie umana della Shoah.
Un massacro delirante e pianificato, teso al perseguimento della eliminazione fisica di coloro che avevano l’unica colpa di essere “diversi” dai loro carnefici.
Parlando di Olocausto o di Shoah, parliamo di una deliberata, spietata, furia assassina, feroce, cieca e folle, che si abbatté, con violenza assoluta e con una tragica, chirurgica, efficacia, non solo sulla popolazione ebraica, ma anche su altre innocenti categorie di persone “colpevoli” soltanto di non essere tedeschi, o di credere in un altro Dio; di non essere sane o di avere idee ed orientamenti sessuali diverse rispetto alla maggioranza. Primo Levi ebbe miracolosamente salva la vita, ma la sua esistenza, come quella dei pochi scampati all’eccidio di massa, fu un continuo sopravvivere a quegli orrori, fu un continuo respirare il gelo dei tanti occhi e delle tante voci perse, nel disperato tentativo di togliersi di dosso l’odore acre della morte, di fuggire dall’opprimente rimorso di essersi salvato.
Ma il suo fu un tentativo vano, a tal punto da costringerlo a porre fine alla sua stessa vita nel 1987.
Ecco, allora, che la sua testimonianza ci aiuta a comprendere il dramma interiore ed il travaglio di uomini e donne ridotti ad essere il riflesso tetro di un odio sconsiderato, uccisi in vita dalla consapevolezza della loro inumana condizione.
Ricordando la prigionia, Levi scrisse:
Il campo di sterminio è stato organizzato fin dall’inizio per distruggere l’umanità dei deportati, oltre che per sterminarli. Dopo pochi giorni all’interno del campo i deportati rinunciavano già a ribellarsi o soltanto guardare male una SS. Avevano compreso che l’unica cosa importante era mangiare quel poco che veniva distribuito. Di conseguenza cercavano di ingannare gli altri e di derubarli, non essendoci più posto né per la gratitudine né per il rispetto.
L’annullamento della personalità, il degrado dell’essere umano alla condizione di animale, la privazione della dignità: che cos’è tutto questo se non una morte anticipata, una morte ancora più grave, non fisica, bensì spirituale?

A questa domanda, ciascuno di noi è chiamato a dare una risposta concreta. E dobbiamo farlo attraverso l’esercizio sistematico della memoria ma, soprattutto, facendo in modo che per nessuna ragione possa albergare mai dentro ciascuno di noi il seme degenere della discriminazione e del rifiuto delle diversità. E’ questo il dovere primario al quale siamo chiamati noi oggi: essere strumento di un cambiamento culturale e sociale che trasformi in fatti i tanti buoni propositi. Se saremo capaci di fare tutto questo, la memoria degli orrori non sarà mai un esercizio sterile e vuoto e noi stessi, ogni giorno, saremo i testimoni di un mondo nuovo. Perché dal male può e deve nascere il bene, dal dolore può e deve nascere la serenità. Solo quando si smarrisce la coerenza tra ciò che si professa e ciò che si fa, qualsiasi orrore finisce per apparire normale. Così diventa normalissimo oggi, nella nostra Italia, armarsi di spranghe e fucili e rincorrere, picchiare, pestare a sangue, sparare agli immigrati colpevoli soltanto di avere il colore della pelle diverso dal nostro, come è successo qualche mese fa in Calabria. L’infamia della Shoah, la compenetrazione umana nel dolore immenso di quei martiri, non deve mai smettere di interrogare, di tormentare, come un tarlo, le nostre coscienze. C’è differenza tra i ghetti ebrei dei nazisti ed i giacigli di plastica e cartone dove vivono i nostri immigrati oggi, proprio a ridosso delle nostre case? Era davvero così diversa la condizione degli ebrei costretti a lavorare fino a spaccarsi la schiena nei lager, da quella dei “diversi” di oggi che lavorano 15 ore al giorno per pochi euro? Tutto questo avviene ogni giorno sotto i nostri occhi. Sotto gli occhi di tutti noi che oggi piangiamo, giustamente, i discriminati di ieri, mentre continuiamo a distogliere volontariamente lo sguardo dai discriminati di oggi! Ieri i Kapò, oggi i “caporali” del lavoro nero, dello sfruttamento, contro i quali, contro le cui pratiche, lo Stato tutto, troppo spesso, preferisce chiudere gli occhi per non vedere. Le Società che smarriscono il senso delle regole, che perdono la sacralità del Diritto, diventano il sepolcro della giustizia e lo scrigno della discriminazione. L’antisemitismo, il razzismo, l’intolleranza, non sono problemi passati: essi sono presenti e forti ancora oggi nella nostra vita quotidiana. Per debellarli, ha Concluso Il presidente del Consiglio Comunale, è necessario più che mai unirsi in un fronte largo, che traduca la rabbia per le ingiustizie di ieri nei fatti diversi di oggi. La memoria del passato, l’ombra buia di quegli orrori, ci sia utile a migliorare il nostro presente ed a costruire nuovi orizzonti nel nostro Futuro”.

sabato 9 gennaio 2010

ROSARNO: LA GUERRA INCIVILE


Quello che in queste ore sta avvenendo a Rosarno è il naturale rivelarsi dello spirito Italiano. Per lo meno di quel ricettacolo di intollerenza e di ignoranza che il Belpaese è diventato negli ultimi anni. Il sistematico ribaltamento della scala dei valori perpetrato, quasi fosse una missione trascendente da parte dei governanti, ha prodotto la perdita totale di ogni principio laico, sociale e solidale contenuto nella nostra Costituzione.
La religione, ridotta esclusivamente ad un rito pubblico che si esaurisce nelle perpetue forme prive di contenuto, utile solo ad ostentare la propria appartenenza ed a sentirsi a posto con la propria coscienza, ha smarrito da tempo la propria funzione etica, ha perso totalmente la propria capacità critica nei confronti delle debolezze umane.
In questa situazione paradossale e disarmante nella quale il torto diventa ragione, l'orrido diventa banale e l'intolleranza diventa l'unico collante di una nazione civilmente morta e sepolta, si inserisce quasi come un' ovvietà il disastro civile di Rosarno.
Se questa è l'Italia io NON MI SENTO ITALIANO!
Di fronte alle immagini televisive, ai commenti della stampa, resto senza parole e con un dolore profondo dentro me stesso, un dolore che diventa fisico se penso a questo orrore, alla impotenza alla quale questa “incultura” imperante, lentamente ma inesorabilmente, ha relegato, ha ghettizzato, le persone per bene di questa nazione, gli uomini e le donne pie, i veri religiosi, gli intellettuali, gli italiani onesti, i giovani idealisti, gli anziani saggi.
Tutti spinti fuori dalla socialità, ridotti a non aver più nemmeno la voglia di provare a reagire, di provare a pronunciare parole diverse. Tutto sepolto da macigni di risate ed insulti, dalla retorica dei lutti nazionali, dall'ostentazione di ogni disvalore, dal dominio dei vizi pubblici sui problemi reali del Paese.
E così, in questa Italietta, scopriamo che è diventato “normale” sparare pallettoni addosso ad un signore che espleta un bisogno fisiologico magari nelle vicinanze della propria “privata” abitazione.
Non che si possa urinare dovunque, certo, ma la reazione mi pare assolutamente sproporzionata rispetto alla “offesa”. Cosa avrà mai fatto di tanto grave quel “nostro fratello” di colore per meritarsi delle fucilate?! Forse aveva una impellenza non più rinviabile e si è liberato! A quanti “italiani” capita tutti i giorni una situazione simile?
La cosa più triste è che sarei pronto a scommettere sulla convinta religiosità di colui che ha premuto il grilletto. E' questa l'insanabile frattura italiana tra l'essere e l'apparire: intollerabile.
Quando si smarrisce la coerenza tra ciò che si professa e ciò che si fa, qualsiasi orrore appare normale. Così è normalissimo armarsi “fino ai denti” (come ha detto ai microfoni tv un nostro “concittadino” di Rosarno) ed incominciare la “caccia all'uomo nero” per prenderlo a sprangate.
Così come è altrettanto “normale” sputare addosso agli immigrati “clandestini” che verrebbero a portare delinquenza e crimine. Non è normale, a mio parere, ma è certamente semplice.
L'immigrato che viene in Italia non è clandestino solo se ha un “regolare contratto di lavoro”; questo recita la norma vigente, la cosiddetta legge “Bossi – Fini”.
Eppure c'è una enorme richiesta di lavoratori per alcune tipologie di mestieri, quelli considerati dalla cultura imperante “più umili”, e legati, prevalentemente, alla agricoltura ed alla assistenza agli anziani.
Tantissimi tra uomini e donne “immigrati clandestini”, ogni giorno all'alba, lasciano le proprie baracche e vanno a lavorare anche per 10 – 12 ore, senza contributi, senza assistenza, senza diritti, per un salario vergognoso di 20 euro al giorno. Una condizione, la loro, che li spinge ai margini della società, che li isola dal mondo civile, che li costringe ad una vita di umiliazioni e di stenti, ad una vita da schiavi e da diversi.
Sono pronto a scommettere che i cosiddetti “caporali”, ovvero questa specie di datori di lavoro, “italiani” che sfruttano e umiliano, sono prevalentemente religiosi, probabilmente cattolici, di quelli che la domenica mettono il vestito buono e vanno in chiesa con tutta la famiglia per partecipare a quel rito antico e, ahimè, vuoto che li fa sentire bene con loro stessi. Salvo poi, il lunedì, continuare a sfruttare, a schiavizzare, a vessare...tanto poi arriverà la prossima domenica per salvarsi l'anima!
Di fronte a tutto questo, allora, anche io grido a tutta voce: “abbattiamo il Nero”! Inteso, però, come LAVORO NERO!
Vorrei che lo Stato, o quel poco che resta di esso, iniziasse a muoversi in questa direzione, faccia dei controlli, segua gli immigrati ogni mattina che si recano a lavoro. Verifichi se quell' “italiano”, loro caporale, gli ha fatto firmare un contratto, versi per ognuno di loro i contributi al sistema previdenziale. Verifichi, lo Stato, se il nostro “concittadino” caporale faccia lavorare in sicurezza i propri dipendenti, rispetti l'orario di lavoro ed osservi tutte le garanzie di legge in favore dei lavoratori, etc...
Se tutte queste condizioni fossero rispettate, quei lavoratori già non sarebbero “clandestini”. In caso contrario, invece, dovrebbe, lo Stato, costringere i tanti caporali “italiani” a REGOLARIZZARE ciascun immigrato, a regolarizzare ciascun rapporto di lavoro, a pagare, come tutti, le dovute sanzioni.
E' troppo facile chiudere gli occhi e far finta di non vedere e di non sapere.
E' troppo facile prendersela con le vittime per non fare torto ai carnefici.
L'immigrazione clandestina si abbatte solo REGOLARIZZANDO e non ESPELLENDO.
Si abbatte sanzionando gli “italiani” che sfruttano “a nero” la forza lavoro di uomini e donne per bene che non hanno altro che la loro dignità di esseri umani, ed il loro sguardo fiero.
Ecco perché a Rosarno, come nel resto d' Italia, io mi schiero con gli immigrati: in loro, da non cattolico, non dimentico mai di vedere “il prossimo” di cui parlava Cristo, non dimentico mai di vedere i nostri nonni, le nostre radici di gente fiera che parte per cercare un domani migliore.
Eppure ora spero che, terminata la corsa oltre il precipizio della tollerabilità, riconosciuta la disfatta dello Stato di diritto, questa guerra incivile tra poveri (di sostanze gli immigrati, di cultura e di valori noi altri italiani) scuota le coscienze ed induca questo popolo ad avere l'umiltà ed il coraggio di ricostruire daccapo una propria socialità, a recuperare un patrimonio di principi e di sensibilità civile perduti.
Per questo, affinché ritorni una pace non apparente e si guardi davvero al dialogo, confido in un ritorno immediato del rispetto dei diritti e del Diritto.
Ho ancora la forza di sperare che chi spara senza giustificato motivo venga perseguito per legge, indipendentemente dal colore della pelle di chi ha sparato; ho ancora l'illusione di credere che chi percuote con spranghe altre persone senza motivo venga condannato, o che chi sfrutta il lavoro degli altri, chi non paga le tasse, chi non regolarizza i lavoratori, possa essere sanzionato. Sia esso straniero oppure no. Quando tutto questo sarà ristabilito, allora e solo allora, potemmo di nuovo dirci italiani.